Beato Stefano Sándor
Biografía
SDB
«Il motore della vita di Sándor István è stato l’amore per Dio e il servizio generoso e sacrificato a favore dei giovani.»
— Don Pierluigi Cameroni SDB: Il messaggio di Stefano Sándor, salesiano coadiutore
L’anno 1914 fu tragico per l’Europa: il 28 luglio, dopo l’attentato di Sarajevo, l’Austria dichiarò guerra al regno di Serbia. Iniziava così il grande massacro della Prima Guerra Mondiale. Verso la fine dell’anno precedente, il 6 novembre 1913, erano arrivati in Ungheria, allora parte dell’impero Austro-Ungarico, i primi salesiani, un gruppo di giovani ungheresi che avevano svolto il loro percorso formativo in Italia.
In questo contesto, il 26 ottobre 1914 nasce Istvàn Sándor, nella cittadina di Szolnok, situata a un centinaio di chilometri a sud-est dalla capitale, Budapest, nella Grande Pianura Ungherese. La cittadina è attraversata dal fiume Tibisco, importante affluente del Danubio, che proprio a Szolnok comincia ad essere navigabile. La formazione dell’abitato risale ai primi tempi dell’occupazione del bacino dei Carpazi da parte delle tribù magiare. Il fiume e la fertile ed estesissima pianura, che inizia dai piedi dei monti Bukk, hanno sempre favorito scambi che hanno fatto della cittadina un vivace centro commerciale e culturale e, data la posizione geografica, un importante snodo di comunicazioni, in particolare del traffico ferroviario. La presenza di sorgenti termali e i lunghi periodi di esposizione solare hanno contribuito allo sviluppo turistico e agricolo, accanto alla presenza di cartiere e di officine ferroviarie.
Fanciullezza e giovinezza
Istvàn era il primogenito di tre fratelli. Tre giorni dopo la nascita fu battezzato nella parrocchia francescana, che avrebbe poi svolto un ruolo significativo nella formazione cristiana del ragazzo. Il papà, che per tradizione famigliare aveva dato lo stesso suo nome al figlio, era ferroviere. Tale impiego stabile (allora, come oggi, non scontato) permetteva alla famiglia uno stile di vita sobrio, ma sereno, in un momento così difficile per la nazione magiara. Data l’importanza strategica della circolazione ferroviaria nel contesto bellico, papà Istvàn non fu mandato al fronte; poté così seguire di persona la crescita dei figli, sui quali esercitò un influsso molto positivo, e fu in grado di provvedere in maniera dignitosa alla loro educazione.
Fin da piccolo, Istvàn era assiduo frequentatore della sua parrocchia, affidata ai Francescani. La comunità dei figli di S. Francesco costituiva il baluardo della vita cristiana nella cittadina. Entrato a formar parte del gruppo dei ministranti, svolgeva con gioia questo servizio. Più tardi riemergerà in lui questa passione per il culto, quando ormai da coadiutore salesiano si impegnerà, con molta serietà, a formare un gruppo esemplare di ministranti nella scuola e nell’oratorio. Per lui, già allora, non si trattava semplicemente di una attività esterna, ritualistica, cerimoniale, ma di una vera forma di servizio al Signore, espressione di autentico amore a Gesù Eucaristia.
Una vera e propria iniziazione all’associazionismo cattolico fu poi per lui l’appartenenza al “Szìvgàrda” (lett. Guardia del Cuore), che promuoveva gruppi di ragazzi/e con attività comunitarie ed educative ispirate dalla devozione al S. Cuore. Tale organizzazione fu attiva dal 1920 fino al 1948, quando il regime comunista eliminò tutte le associazioni cattoliche.
Ragazzo sempre allegro, di umore costante, amante dei giochi, sempre in movi-mento: così lo ricordavano i compagni. Benvoluto da tutti, aveva il temperamento del leader; radunava attorno a sé i ragazzi suoi coetanei e li sapeva guidare senza smania di predominio e senza bullismi. Gli piaceva recitare in teatro, esibirsi sul palcoscenico per far divertire i compagni. Fin da ragazzo preferiva fare da arbitro per far giocare i più piccoli.
Anche in casa badava ai fratelli minori ed era lui a dirigere le preghiere, ai pasti e alla sera. Era solito aiutare la mamma nelle faccende domestiche. Quando i fratellini si rendevano colpevoli di qualche marachella, era per lui naturale addossarsene la responsabilità.
Il nostro adolescente frequentava quindi assiduamente la comunità francescana locale, rendendosi amico dei Frati Minori, in modo particolare di uno di loro, il P. Casimiro Kollàr, che fu suo direttore spirituale. Per un ragazzo ciò non era una cosa comune; l’apertura con questo degno sacerdote l’accompagnò in una costante maturazione spirituale, anche in situazioni difficili. Infatti, negli anni del dopo-guerra, la disoccupazione si faceva sentire; erano, anche allora, tempi di grave crisi economica; risultava difficile trovare un lavoro stabile. Il giovane Istvàn, terminata la scuola dell’obbligo, dovette affrontare lavori fisici più duri, come portar sacchi di cemento nei cantieri o lavorare in una fonderia di rame. Tra i fratelli era quello di più bassa statura e di fisico più debole. Lavorava con dedizione e la mamma, alla sera, doveva curargli le piaghe sulle spalle, causate dai pesi trasportati; lo faceva con metodo casalingo, spalman-dovi sopra grasso di maiale.
Sulla scia di don Bosco
I Francescani, vedendo la serietà del suo impegno e il grande senso pratico che dimostrava, unitamente alla vita cristiana di qualità che conduceva, consigliarono la famiglia di mandare il giovane all’istituto salesiano “Clarisseum” di Ràkospalota (allora grosso sobborgo alla periferia di Budapest). I Salesiani avevano aperto da poco, in un locale ricevuto in uso da una nobile famiglia, una scuola professionale per ragazzi poveri (anche orfani, o ragazzi in difficoltà, mandati dal ministero di Grazia e Giustizia) dai 10 ai 17 anni, con arti grafiche e oratorio festivo. Si trattava di una novità per l’Ungheria di quel tempo. Vi si svolgevano molteplici attività: ministranti, cantori, sport, banda musicale. Nonostante il suo impegno nello studio, il nostro Istvàn non raggiunse mai un alto livello; tuttavia, nel giugno del 1928 completò il curricolo con voti sufficienti.
A questo punto, tornato in famiglia, il ragazzo quattordicenne fu avviato ad un apprendistato metallurgico (tornitore, fonditore di rame); non vi era altra possibilità data la difficoltà di avere un lavoro in quei tempi. Durante tutto questo periodo fu costantemente in contatto con i Francescani, in particolare col suo confessore stabile. Questa coerente cura della vita spirituale, unitamente alla traccia profonda che aveva lasciato in lui la permanenza nell’opera salesiana di Ràkospalota, lo portavano a riflettere su quel che Dio voleva da lui. E così riconobbe in se stesso, con l’aiuto della guida spirituale, i segni della chiamata di Dio alla vita religiosa salesiana. Come dirà più tardi, la lettura delle pubblicazioni salesiane lo aveva colpito e l’aveva fatto riflettere. Anche in questo tratto si intravede una motivazione della sua scelta: la sua sensibilità per il lavoro in tipografia e l’amore per la stampa a diffusione popolare. Da una lettera del padre francescano suo confessore e guida spirituale apprendiamo che nel 1932 (a 18 anni) aveva presentato una domanda che però non poté essere accolta, perché mancava il consenso dei genitori. Intanto aveva fatto diversi tipi di lavoro applicando le sue capacità, anche come semplice giornaliero nella manutenzione ferroviaria. Notevole era la sua capacità di adattamento a diverse forme di abilità manuali, come si constata anche nella gioventù di Giovanni Bosco. Continuò, in questo periodo, la sua corrispondenza con la direzione del “Clarisseum”; per non irritare i suoi genitori, le risposte arrivavano al convento dei francescani.
Giunto all’età di 21 anni, alla fine del 1935, Istvàn mandò la sua richiesta formale al Superiore dei Salesiani, don Jànos Antal. Tra l’altro scriveva: “Sento la chiamata a entrare nella Congregazione Salesiana. Di lavoro ce n’è bisogno ovunque; senza lavoro non si può giungere alla vita eterna. A me piace lavorare”. Vi si delinea un elemento fondamentale della sua vita: sentiva il mondo del lavoro come suo. Fu accettato come aspirante-candidato alla vita salesiana.
Il 12 febbraio 1936 faceva ritorno al “Clarisseum”, per trascorrervi un periodo di prova. Vivendo in quella comunità, lavorò con entusiasmo come aiuto-tipografo, sagrestano e nell’oratorio. Dopo tre mesi, chiese di entrare in Noviziato, ma i superiori considerarono che era meglio che completasse la sua formazione di aspirante e anche la preparazione tecnica come stampatore. Sereno, nonostante l’età che per quei tempi era parecchio superiore alla media dei novizi, continuò il suo lavoro fino al marzo 1938, quando, all’età di 24 anni, non più apprendista, ma già tipografo professionale, chiese ed ottenne di entrare nel Noviziato.
Un noviziato accidentato
Ma nel 1938 l’Ungheria visse un periodo particolare: la riannessione dei territori di popolazione magiara, staccati nel Trattato del Trianon (1919) e assegnati nuovamente al governo ungherese nei trattati di riordinamento dell’Europa Centrale del 1938. Pertanto il nostro Istvàn, iniziato regolarmente il noviziato il 1° aprile di quell’anno, dovette interromperlo per prestare servizio militare. Come soldato continuava a tenere il suo alto tenore di vita spirituale e di apostolato, tenendosi in relazione epistolare con i superiori del Noviziato. Trascorreva le giornate di congedo al “Clarisseum” e consegnava e conse-gnava all’Ispettore i pochi soldi ricevuti.
Ottenuto il congedo nel 1939, ricominciò il suo Noviziato il 30 aprile. I suoi 25 anni erano un’età ben superiore a quella dei suoi compagni di noviziato, poco più che adolescenti. Si comprende allora l’ammirazione suscitata dalla sua condotta fra i giovani compagni. “Benché avesse nove o dieci anni più di noi, condivideva la nostra vita totalmente, in modo esemplare. Non sentivamo affatto la differenza di età. Istvàn stava imparando il mestiere di tipografo, ma nel noviziato non poteva praticare il suo mestiere; eseguiva bene i lavori di casa, soprattutto in cucina. Il suo talento di educatore balzò agli occhi anche di noi novizi, specialmente nelle attività comunitarie. Con il suo fascino personale ci entusiasmava a tal punto che davamo per scontato di poter affrontare con facilità anche i compiti più difficili”. “Dava l’impressione di pregare quasi continuamente. Allo stesso tempo si fece notare nel nostro giovane gruppo per la sua capacità di trascinare anche i compagni più scettici, provocando una loro reazione entusiasta, soprattutto quando il gruppo di teatro amatoriale doveva presentare delle scene comiche”. “Il suo livello spirituale era di gran lunga superiore a quello degli altri”. Sono testimonianze giurate di suoi antichi compagni di noviziato.
La congiuntura economica degli anni ’39-’40 era molto seria. Con l’occupazione della Polonia era iniziata la II Guerra Mondiale. Ma il noviziato di Mezonyàràd poteva contare su un’ampia tenuta con terreno coltivato che garantiva una buona produzione di alimenti.
Istvàn finì l’anno di noviziato con la prima professione dei voti religiosi, come salesiano laico (‘coadiutore’) l’8 settembre 1940. Dalla sua corrispondenza dell’epoca traspare la sua immensa gioia e l’entusiasmo per quella vita. Tornò al “Clarisseum”, al suo lavoro nella tipografia, ora come uno dei responsabili, all’animazione nella chiesa pubblica annessa e nell’oratorio. La tipografia Editrice don Bosco godeva di grande prestigio nazionale. Oltre alle pubblicazioni salesiane (Bollettino Salesiano, Gioventù Missionaria…) pubblicava anche collane prestigiose di opere teatrali per i giovani, libri di spiritualità giovanile, libri di istruzione religiosa popolare.
Proprio in quegli anni in Ungheria, sotto il patrocinio di don Bosco, si era dato vita ad una Associazione Cattolica dei Giovani Lavoratori (‘KIOE’). Al “Clarisseum” il nostro Istvàn fu il promotore e l’anima di questa organizzazione. Il suo gruppo divenne gruppo-modello; egli vi aveva trasfuso l’atmosfera serena e la spiritualità sacramentale ed educativa tipica di don Bosco. Catechismi ragionati, conferenze apologetiche, ore di adorazione, escursioni-pellegrinaggi, sport e gioco, santa allegria caratterizzavano la vita del gruppo. I giovani ne erano attratti e non abbandonarono l’opera, anche quando il loro animatore fu richiamato alle armi. L’Ungheria era entrata in guerra, a fianco della Germania, il 22 giugno 1941.
Sul fronte di guerra
Sándor prestò servizio nell’esercito ungherese come appuntato telegrafista. Alcuni suoi commilitoni testimoniano che in reparto non nascondeva di essere un religioso consacrato. Creò attorno a sé un piccolo gruppo di soldati, attratti dal suo esempio, che egli incoraggiava a pregare e ad evitare le bestemmie. Fino al 1944, con brevi intervalli, rimase nell’esercito. Durante questo periodo, finché fu possibile, si tenne costantemente in contatto con i superiori religiosi, in particolare con don Jànos Antal, provinciale-ispettore. Dalle sue lettere traspare la preoccupazione per la propria vita interiore, benché si trovasse in gravi situazioni. Nei brevi periodi di licenza si recava subito in casa salesiana, che sentiva come la sua vera famiglia, sempre accolto con grande affetto. Fu poi trasferito sul fronte russo, dove partecipò a durissimi combattimenti. Il suo comporta-mento come militare fu così valoroso, da meritare di essere decorato della Croce al Merito di Guerra. Prese parte alla disastrosa ritirata dall’ansa del Don. Fatto prigioniero dagli Americani in Germania, poco tempo dopo poté ritornare in patria.Nel 1944 riprese il suo lavoro a Ràkospalota, per quanto lo permettevano le drammatiche circostanze. Il 13 febbraio 1945, dopo lunghi e aspri combattimenti durati tre mesi, che portarono alla rovina dell’abitato, tutta la città di Budapest era sotto il controllo dell’esercito sovietico. In questo tempo i Salesiani rimasti in città soffrirono terribilmente la fame, l’impossibilità di lavorare, le requisizioni da parte dell’occupante. All’istituto di Ràkospalota, svuotato di allievi, furono sequestrati letti e materassi. I confratelli dovettero farsi degli alloggi di fortuna, tra le macerie, affrontando un inverno particolarmente severo.
Arresto e condanna
Proprio nella casa abitata da Sàndor e Dàniel vi era una situazione insidiosa. La padrona dello stabile aveva il marito che lavorava nella famigerata AVO (polizia politica). Notando la nutrita corrispondenza per Sàndor, essa cominciò ad aprire, con vari sistemi imparati dal marito, le lettere. Il loro contenuto veniva così trasmesso alla polizia che teneva sotto controllo il destinatario di esse ed il compagno di appartamento.
Accadde allora un fatto che, per essere compreso, dev’essere inquadrato in una iniziativa del regime. La riprendiamo da uno studioso degli eventi dell’epoca. “Quando la polizia segreta comunista ampliò i propri ranghi, nel 1949, fino a contare 30.000 membri, videro nei giovani orfani e lavoratori i “quadri più affidabili” da cui ricavare, formandoli, buoni poliziotti comunisti. Dopo una sessione formativa di tre mesi, addestrarono i migliori come “guardie del partito”. Ricevettero il rango di sottufficiali e ufficiali e il loro compito fu la protezione/difesa personale dei principali capi del partito – Partito dei Lavoratori Ungheresi, come si chiamava allora – Ràkosi e Géro. Reclutarono Albert Zana ed alcuni suoi compagni (ex-allievi del Clarisseum, seguiti da Istvàn) prima come militari e poi nella polizia segreta (AVO). Questi giovani ufficiali della polizia, anche dopo la nazionalizzazione dell’Istituto di Ràkospalota e l’espulsione dei Salesiani mantennero rapporti coi loro educatori. Sàndor Istvàn […] si incontrava regolarmente con i suoi ex-allievi ed alcuni amici di essi al Clarisseum o in appartamenti privati. Egli si occupava con grande amore dei problemi spirituali dei giovani. Tra di loro si preparavano a resistere alla propaganda atea della dittatura ed aiutavano anche altri a mantenersi fermi nella loro fede. Anche i giovani ufficiali della polizia conquistarono amici alla fede.
Involontariamente commisero un “’errore”. Sulla strada principale di Ujpest in quei giorni aprirono una nuova osteria con l’insegna di “Osteria dell’Inferno”. A fianco dell’entrata vi era un cartello con la scritta: “Entrate nell’inferno”. I giovani considerarono quella scritta come una presa in giro della religione. (Questo è un indice della sensibilità religiosa dell’epoca, oggi quasi inimmaginabile). La mattina del giorno seguente i giovani cosparsero di bitume la scritta. I proprietari del locale avvisarono l’AVO e i cani guidarono i poliziotti al “Clarisseum”. Qui catturarono Hegedus Hajnal, allora quindicenne allievo di ginnasio, che stava arrivando proprio in quel momento. Con torture gli strapparono i nomi degli altri componenti del gruppo e il nome del religioso che li animava. Nel partito vi erano anche persone con buone intenzioni. Appena emesso il mandato di cattura, avvertirono Sándor Istvàn dell’accaduto. Il superiore salesiano, Adam Laszlo, come abbiamo già annotato, aveva previsto la possibilità di fare espatriare clandestinamente il confratello. Ma Istvàn sentì che non poteva fuggire, mentre i suoi discepoli si trovavano in pericolo di vita in patria. Disse agli amici che era pronto anche al martirio. Ma la padrona di casa di Daniel fece imprigionare Istvàn, Daniel ed altri salesiani. In breve tempo imprigionarono anche gli altri giovani implicati. Matyas Rakosi (il dittatore) decise l’immediata condanna dei giovani ufficiali.
Si conobbero, più tardi, alcuni particolari dell’arresto. Il 28 luglio 1952, al mattino si presentò nell’alloggio la polizia politica e arrestò Istvàn. Aspettarono poi il ritorno di Tibor Daniel, al pomeriggio. Quando questi entrò in camera fu accolto da un violento schiaffo. Lo portarono alla sede centrale della polizia, nel famigerato edificio di via Andrassy 60 (oggi “Museo del Terrore”) dove fu sottoposto a ripetute torture che gli rovinarono il fegato e la milza. Infine, per evitare di farne un martire, lo rilasciarono, in condizioni estreme, nel suo villaggio, Asvànyràrò (nel nord, presso la frontiera slovacca). Poco tempo dopo, a conseguenza delle torture subite, morì nelle braccia della mamma e della sorella Elisabetta.
Quanto al nostro Istvàn, fu condotto al carcere del Tribunale Militare di Budapest (zona di Buda, Fo Utca), dove fu sottoposto a percosse e a continui estenuanti interrogatori. La competenza del processo era del Tribunale militare, in quanto tra gli imputati vi erano membri delle forze armate. A causa delle disumane torture e dei procedimenti tristemente noti e usati coi prigionieri “politici” di quel tempo (cfr. card. Mindszenty), Istvàn fu costretto ad ammettere i “crimini”di cui lo si incolpava, ben sapendo che tale dichiarazione avrebbe costituito per il tribunale militare motivo per una condanna a morte.
Il processo iniziò il 28 ottobre 1952. Presenti 16 imputati: 9 avevano servito nei corpi speciali della Polizia; 5 erano Salesiani; 1 giovane studente ed una giovane studentessa. Tutto si svolse a porte chiuse ed in una sola udienza. Fu, come al solito, una farsa già tutta predisposta. Tutto era già stato deciso dal tribunale, presieduto dal tenente colonnello Béla Kovàcs, coadiuvato da due tenenti dell’AVH (polizia segreta). Il pubblico ministero accusatore, maggiore Gyorgy Béres rappresentava l’espressione personale del dittatore Ràkosi. Il tribunale emise subito il verdetto n° I/0308/1952: condanna a morte per Istvàn e tre giovani ufficiali, ritenuti “colpevoli di complotto contro la democrazia popolare e alto tradimento”. Due giorni dopo venne anche respinta la domanda di grazia che era stata presentata d’ufficio.
Dietro la montatura del processo era patente l’ira del regime nei confronti dei religiosi che mantenevano rapporti con i giovani lavoratori, considerati come coloro che dovevano costituire lo zoccolo duro della dittatura.
Negli anni del regime comunista furono alcune migliaia i giovani che, con piena consapevolezza del pericolo che correvano, frequentavano in vari modi gruppi giovanili clandestini cattolici e, col pretesto di gite e festeggiamenti famigliari, partecipavano a incontri di formazione religiosa, esercizi spirituali. Parecchi furono imprigionati, torturati. Molti furono esclusi dalla frequenza alle scuole superiori e all’università, o dovettero dedicarsi subito a lavori di manovalanza.
Nel carcere militare di Fo Utca
Ancora oggi, chi visita la capitale ungherese, nella zona di Buda, percorrendo la Via Principale (questo significa “Fo Utca”) rimane impressionato dalla tetra imponenza dell’edificio del Tribunale Militare, tutto in pietra scura, i cui piani superiori ospitavano il carcere militare. La cella n. 32 del Reparto “Alto Tradimento” vide la presenza del nostro Istvàn dall’imprigionamento fino alla sera dell’8 giugno 1953.
Di questi dieci mesi e più abbiamo qualche notizia da compagni di cella che sopravvissero. Ecco una testimonianza: “Durante le settimane trascorse nella cella comune, facevamo di tutto per poter vivere una vita il più possibile spirituale, nel senso più nobile della parola […] Pregavamo insieme e recitavamo il Rosario di nascosto, perché anche tra i compagni di cella vi era un certo controllo interno. Ogni cella aveva un suo “comandante” responsabile che doveva osservare e denunciare ogni irregolarità, che poi non rimaneva impunita. (Il regime infiltrava apposta qualche elemento che, fingendosi incarcerato, cercava di raccogliere confidenze dai detenuti). Il nostro amico Istvàn cercava di dare forza ai compagni per mezzo di preghiere di consolazione e pensieri spirituali”. Malgrado fosse consapevole del suo destino tragico, egli era apportatore di serenità agli altri carcerati.
Un sacerdote (Jòzsef Szabò), compagno di prigionia, afferma: “Si sapeva che Istvàn era disposto al martirio. Era consapevole che dal luogo in cui si trovava l’unica via di uscita era quella che portava al patibolo. Era comprensibile che, come ogni persona, anch’egli fosse attaccato alla vita e nutrisse la speranza della sopravvivenza, ma non diede nessun segno di voler scendere a compromessi. A me, suo padre spirituale, durante le nostre conversazioni in cella, disse in confidenza e con la massima sincerità di non aver partecipato ad alcun complotto politico. Non ho mai avvertito un interesse politico da parte sua. […] Ricordo che in cella eravamo più di cinquanta. Non era possibile parlare liberamente fra di noi; ognuno faceva parte di un determinato gruppo in cui vi erano delle spie. Essendo in una situazione disperata, tutti noi eravamo sottoposti a condanne gravi. La pena più lieve consisteva in una reclusione di 15 anni, ma numerose erano le condanne all’ergastolo, o le sentenze capitali. In questa situazione la gente era molto aperta ad accogliere pensieri spirituali sotto forma di prediche improvvisate. Parlavo delle verità eterne davanti al gruppo e anche Istvàn Sàndor agiva similmente… Si pregava il Rosario completo con l’aiuto delle dita. Vedevamo quanto conforto desse la preghiera ai condannati a morte. Istvàn mi chiese spesso di andare dai nostri compagni di prigione per confessarli e dare l’assoluzione.[…] I condannati a morte cercavano conforto spirituale presso di lui”.
Un suo ex-compagno di scuola, Mihàly Szantò, alto funzionario del Partito, tentò di convincere Istvàn a collaborare con loro. Conoscevano, infatti, le sue abilità e soprattutto l’influsso che esercitava sui giovani. Ma egli non cedette mai. I compagni di cella sopravvissuti erano unanimi: anche dopo la sua condanna a morte confortava i compagni di cella. In momenti di dura fame condivideva il suo cibo – già così scarso – con i compagni di cella.
8 giugno 1953: la testimonianza suprema
Dopo la comunicazione ufficiale della sentenza capitale al condannato, questi fu trasferito dalla cella 32 al piano superiore del carcere militare, alla cella dei condannati a morte in attesa dell’esecuzione. Un compagno di cella sopravvissuto, cinquant’anni dopo, confessava di avere ancora impressa nella memoria la triste scena per cui le guardie carcerarie passarono nella cella 32 a ritirare i suoi oggetti personali: uno spazzolino da denti, un pettine e un asciugamano. Per i prigionieri era questo il segno che l’interessato era stato trasferito nella cella di coloro che sarebbero passati direttamente all’esecuzione capitale.
I superstiti affermano che non si poteva sapere con precisione dove avvenivano le esecuzioni. In genere, almeno fino al 1953, venivano eseguite nel cortile del carcere stesso. Per coprire le grida dei condannati si usava portare al massimo il volume di rumore prodotto dallo scappamento del motore del camion usato come palco. Quando dalle celle si udiva tale sinistro fracasso, si intuiva che si stavano eseguendo condanne, sopratutto per impiccagione. Il nostro Istvàn fu impiccato per secondo, come risulta dai verbali.
Il cadavere, insieme a quello degli altri giustiziati, fu poi portato con un camion al cimitero del carcere giudiziario della cittadina di Vàc, dove vennero seppelliti tutti insieme in una fossa comune, senza segni di identificazione. Nonostante parecchie ricerche da parte della famiglia e dei Salesiani, a tuttora non si è riusciti a localizzare con certezza il luogo della sepoltura. D’altra parte, i cadaveri riesumati in seguito, dopo la caduta del regime, presentavano una quantità tale di segni di tortura che ne rendevano difficilissima l’identificazione. Ma chi ha il dono della fede sa che anche il corpo martoriato di Istvàn è in attesa del giorno glorioso della risurrezione.
Fama di martirio
Nel 1989 cadeva il “Muro di Berlino” e veniva abbattuta la “Cortina di ferro”.
Nel 1990 si tennero libere elezioni politiche in Ungheria e il nuovo Parlamento approvò la legge sulla libertà di coscienza e la libertà religiosa. Pian piano cominciarono a ricostituirsi le comunità religiose abolite nel 1950. Anche i pochi Salesiani rimasti iniziarono a costituire alcune comunità nei pochi locali restituiti dal Governo.
Bisognò attendere alcuni anni perché i figli di don Bosco raggiungessero un numero sufficiente di personale disponibile, in modo da potersi occupare della raccolta di documentazione e dar inizio, nel 2006, al processo canonico per riconoscere il martirio di Istvàn . Il 10 dicembre 2007 a Budapest fu chiuso il processo diocesano e la parola passò a Roma, alla Congregazione delle Cause dei Santi.
Intanto il popolo di Dio è andato prendendo conoscenza delle tragiche vicende e della condotta eroica di tanti cristiani in Ungheria, sotto il durissimo regime comunista. A livello ufficiale, ed anche popolare, molte vicissitudini di cui prima solo si poteva supporre e sussurrare appena, vengono ora in pena luce. Alcuni superstiti, prima costretti a tacere, ora hanno contribuito a ricostruire, almeno in parte, i fatti reali. Nel nostro caso, per esempio, un parroco, don Jòzsef Szabò, spiega ai suoi fedeli che, essendo egli stato compagno di cella di Istvàn, sa molto bene che questi fu giustiziato a causa della sua fede che gli faceva svolgere una intensa attività pastorale presso gruppi di giovani. E’ un martire modello di pastorale giovanile originata da un intenso rapporto con Dio, vissuto in una profonda semplicità e spontaneità, tanto lontana da forme esterne bigotte, quanto solidamente ancorata su costanti motivazioni di fede e preoccupata, pertanto, di donare ai giovani quell’amore di Gesù che sente nei propri confronti.
Sono molte le persone che manifestano quanto può giovare il riconoscimento ufficiale del martirio di questo giovane uomo, particolarmente per i giovani. E’ un esempio di vita riuscita, maturata nella essenzialità che, se contrasta con la instabilità odierna, è però attuale e stimola a porsi degli interrogativi sul nostro modo di vivere, sulle vere motivazioni del nostro agire. Il confronto con i moventi che hanno guidato il martire ad affrontare e superare tante sofferenze inflittegli ingiustamente, spinge a rivedere la nostra situazione agli occhi di Dio. In modo particolare è motivo di riflessione per coloro che devono in qualche modo occuparsi dei giovani in tempi difficili, come sono anche in altro modo i nostri. La causa a cui egli dedicò tutta la vita, la formazione di una sensibilità cristiana nel mondo del lavoro giovanile, è quanto mai attuale.
Coloro che lo conobbero testimoniano che la sua condotta esemplare non era un atteggiamento che veniva assunto occasionalmente, bensì frutto della convinzione che lo sosteneva costantemente. Il martirio è stata la conclusione coerente di tutta una vita di fede semplice e di amore profondo per i giovani, piena sempre di fiduciosa speranza, anche in circostanze non favorevoli. E’ la disposizione che san Giovanni Bosco ispira ai suoi figli: “Darò la mia vita per i giovani fino all’ultimo mio respiro”.